Quando le emozioni non hanno voce: alessitimia
L’alessitimia è un disturbo della regolazione affettiva, le persone che ne sono affette hanno una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerle e nel verbalizzarle (dal greco, a: mancanza; lexis: parola; thymos: emozione; letteralmente: non avere parole per le emozioni).
Fu descritta per la prima volta nel 1948 da Jurgen Ruesch nell’articolo “The infantile personality”, anche se il termine fu coniato da John Nemian e Peter Sifneos (1976) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici.
Le persone alessitimiche sembrano essere meno capaci di dare un senso ai loro stati interni, con conseguenti ricadute negative sulle relazioni interpersonali e sulla gestione dell’attivazione neurofisiologica legata alle emozioni (Lysaker et al.).
Le caratteristiche peculiari dell’alessitimia riguardano:
– difficoltà nel distinguere i sentimenti dall’attivazione fisica di natura emozionale;
– difficoltà nel descrivere agli altri i sentimenti;
– ridotta capacità immaginativa e scarsità di fantasie;
– stile cognitivo orientato all’esterno.
In apparenza ben inseriti nella società, i soggetti alessitimici presentano una povertà di contenuti nei processi immaginativi e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato senza essere capaci di descrivere quello che provano in quel momento. Anche la rigidità nei movimenti e la mancanza di movimenti espressivi del volto di questi soggetti tradiscono un funzionamento emotivo ridotto. Risulta assente non solo la loro capacità di entrare in contatto con i propri vissuti interiori, ma anche la capacità di sintonizzarsi sui sentimenti altrui. Questo perché i soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica (Parker J.D.A., Taylor G.J., Bagby R.M. 1993; Kristal H. 2007).
In un colloquio con un soggetto alessitimico può accadere che questi racconti in maniera estremamente dettagliata un evento e le circostanze connesse, e rimanere meravigliato se qualcuno gli fa notare che probabilmente ciò che ha provato in quella specifica situazione è rabbia. Questo sempre perché l’alessitimico ha la tendenza a riferire modificazioni somatiche senza comprendere che l’esperienza della rabbia comprende in sé tutte le sensazioni provate quali tremori o tensione muscolare.
Questo disturbo può inoltre svilupparsi in seguito a gravi traumi come maltrattamenti o abusi sessuali o a malattie che portano a uno stato di pericolo di vita come cancro o trapianto.
Taylor, Bagby e Parker (2000) hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni. Questo potrebbe spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali: l’abbuffarsi di cibo, l’abuso di sostanze o il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.
In soggetti con condotte dipendenti, come i bevitori abituali o chi abusa si sostanze stupefacenti, si possono riscontrare alcune caratteristiche correlate con l’alessitimia. La motivazione può essere ricercata nel fatto che il soggetto alessitimico, cerca di compensare la scarsa quantità e qualità delle emozioni attraverso esperienze che possono alterare lo stato di coscienza, utilizzate quindi come condotte compensatorie, la cui assenza porta alla formazione di somatizzazioni in alcuni casi anche gravi.
I rapporti relazionali con i soggetti con questo tipo di disturbo oscillano tra una forte dipendenza verso qualcuno a cui si rivolge e si fa affidamento, a una forma di isolamento emotivo ricercato e voluto.
La maggior parte delle teorie ad orientamento psicoanalitico più recenti sostengono che la regolazione e il contenimento di esperienze primitive, avvengano nei primissimi anni di vita del bambino all’interno del rapporto con la figura di riferimento primaria (madre o chi ne fa le veci) (Bion 1962, Winnicott, 1965, Kohut, 1976; Bowlby, 1989; Main, & al. 1985). Il filone dell’Infant Reserch ha poi evidenziato l’importanza della regolazione reciproca madre-bambino: non solo la madre regola gli stati emotivi primitivi del bambino, ma viceversa i segnali affettivi provenienti dal bambino regolano l’affettività e il comportamento della madre (Stern, 1984,1985; Emde e al. 1991).
Bion (1962) sosteneva che il materiale emotivo primitivo e grezzo venisse trasformato in rappresentazioni mentali di emozioni, sogni, fantasie, pensieri coscienti attraverso il contenimento della madre. Secondo la concezione di Bion, la madre ha un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino, soprattutto quelli disturbanti e laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) non riesce a trasformare le emozioni in rappresentazioni mentali. In questi casi le emozioni rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione, aumentando il rischio di disturbi psicosomatici.
Grotstein & al. (1997) attribuivano una buona riuscita della regolazione affettiva e fisiologica, ad una reciprocità dello scambio tra il soggetto accudente e il bambino, che successivamente sarà in grado di regolare autonomamente. In un lavoro del 1986, Grotstein sosteneva che una carenza di contenimento, di sintonizzazione, o in ogni caso un disturbo nelle relazioni primarie, avrebbe imprigionato l’emozione a uno stadio estremamente primitivo e pericoloso: per evitare di essere travolto da una valanga di emozioni ingestibili, il soggetto alessitimico metterebbe in atto meccanismi difensivi massicci contro l’affettività.
Secondo la Teoria dell’Attaccamento (Main & al.,1985) i problemi di disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri. In particolare, il bambino con attaccamento insicuro-evitante (il cui caregiver risulta rifiutante, emotivamente non disponibile e scarsamente espressivo) tende a sviluppare dei problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti e impara a basarsi esclusivamente sulla cognizione; il bambino con attaccamento insicuro-ambivalente (il cui caregiver fornisce risposte affettive incoerenti, fuorvianti, non prevedibili) non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti.
Per quanto riguarda la riflessione sulle cause e le origini del disturbo, si pensa che siano in gioco diversi fattori, tra cui alcuni deficit neurobiologici le come ad esempio una disfunzione dell’emisfero cerebrale destro, tradizionalmente connesso alla neurobiologia delle emozioni oppure un deficit del trasferimento interemisferico, le variabili socioculturali che, secondo alcune ricerche, evidenziano una maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati, ma soprattutto è stata messa in luce l’influenza critica delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.
Il rapporto con i genitori durante l’infanzia è considerato cruciale per lo sviluppo psico-affettivo di ogni individuo. La crescita in un ambiente invalidante, in cui manca un’adeguata relazione affettiva che permetta al bambino di sviluppare le proprie capacità di modulare il proprio stato emotivo, l’appartenenza a una famiglia molto autoritaria, una carenza affettiva o un evento traumatico possono produrre effetti patogeni sul soggetto, il quale presenta difficoltà a comprendere e comunicare adeguatamente emozioni e stati d’animo.
Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con la loro figura di riferimento (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile, fin dai suoi primi mesi di vita, un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola & Baioni, 2002).
Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione e disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nello sviluppo della consapevolezza emotiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti.
L’alessitimia, e più in generale, i problemi della regolazione affettiva hanno contribuito ad approfondire l’importante influenza dei legami di attaccamento sul funzionamento della mente nel corso dell’intero ciclo vitale, consentendo inoltre di rimarcare il fatto che le emozioni, anche se radicate nella biologia, includano una fondamentale dimensione cognitiva, soggettiva ed esperienziale.
Da un punto di vista terapeutico, si evidenzia la necessità di ristrutturare la sfera cognitivo-affettiva della personalità. Le esperienze cliniche finora raccolte sottolineano l’importanza di un trattamento che integri l’approccio farmacologico con quello psicoterapeutico con l’intento di intervenire simultaneamente sia sulla struttura neurobiologica che sui fattori di natura psicosociale (Bateson G. 1972, Marty P., De M’uzan M., David C. 1971; Caretti V., La Barbera D. 2005).