Empatia: basi neurobiologiche e aspetti clinico-culturali
La parola “empatia” deriva dal greco (empatéia, a sua volta composta da en, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”), quindi “sentire dentro”. Il termine è stato equiparato a quello tedesco Einfühlung, utilizzato nella seconda metà dell’Ottocento per descrivere il processo di immedesimazione nel campo dell’estetica. Per fare un esempio, nel pensiero del filosofo e psicologo tedesco Theodor Lipps, quando ci troviamo di fronte a un’opera d’arte e ci sentiamo improvvisamente coinvolti in essa, stiamo vivendo un’esperienza di immersione empatica in termini estetici.
Nei primi del Novecento il termine “empatia” è stato trasferito all’ambito della psicologia per indicare il modo attraverso cui percepiamo gli altri individui. In psicoanalisi indica sia una posizione di ascolto, che un tipo di risposta da parte dell’analista. Nel linguaggio comune indica la capacità di “stare nei panni dell’altro”, di immedesimarsi, di partecipare alle vicende dei propri simili.
Soltanto con Kohut e con la psicologia del Sé l’empatia assume un’importanza centrale. Ne “La cura psicoanalitica” (1984) Kohut definisce l’empatia come: “la capacità di pensare e sentire sé stessi nella vita interiore di un’altra persona. E’ la nostra capacità quotidiana di provare ciò che un’altra persona prova”.
Secondo Kohut la presenza di rapporti empatici nell’infanzia costituisce la condizione necessaria di uno sviluppo sano, in quanto tali rapporti forniscono alcune funzioni indispensabili come la possibilità di rispecchiarsi nell’altro, l’offerta di un oggetto idealizzabile tramite il quale il sé può attingere calma e forza e l’opportunità di sentirsi simili ad altri esseri umani. L’incapacità cronica di fornire queste funzioni da parte dei genitori, dovuta a debolezza o a deficit della loro personalità, può facilitare lo sviluppo di future patologie nel bambino.
L’empatia è un fenomeno molto complesso che per essere compreso necessita di differenti prospettive. Vorrei qui approfondire il punto di vista biologico per lo straordinario impulso che le ricerche in questo ambito hanno restituito al concetto di empatia.
Le recenti scoperte nell’ambito delle neuroscienze da parte di un gruppo di ricercatori di Parma guidati da Giacomo Rizzolatti hanno portato all’individuazione di un gruppo particolare di neuroni chiamati “neuroni specchio” che forniscono un substrato neurologico ai processi empatici e di immedesimazione.
Utilizzando dei macachi come soggetti sperimentali, questi ricercatori osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando gli animali erano intenti a compiere determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro svolgere le stesse azioni.
Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini. I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione, per questo motivo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri.
Sembrerebbe che il sistema dei neuroni specchio entri in azione soltanto quando il soggetto osserva un comportamento che egli stesso ha messo in atto in precedenza. Man mano che l’altro compie un’azione che si allontana in qualche modo dal repertorio di azioni che si possono effettivamente compiere, si riduce maggiormente la reazione dei neuroni specchio e quindi la possibilità di comprendere ciò che l’altro sta facendo.
Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso delle azioni. In accordo con questa ipotesi, studi neurofisiologici nell’uomo hanno evidenziato che quando osserviamo negli altri una manifestazione di disgusto o di dolore si attivano gli stessi circuiti neurali collegati alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione. Se ci troviamo di fronte a un volto triste o viceversa vi scorgiamo l’indizio di un sorriso, ecco che una catena di neuroni si attiva nel nostro cervello mettendoci nella condizione di imitare nel nostro corpo e nella nostra mente l’emozione, la sensazione o l’atto in corso.
I moderni studi sulle basi neurali dell’empatia aiutano a chiarire i meccanismi sottostanti a un ampio spettro di disturbi neuro-psichiatrici: un deficit nella capacità di rappresentare le azioni o le intenzioni degli altri, quindi nella capacità di empatizzare emotivamente con gli altri, può avere un ruolo centrale in tutti quei disturbi psichici caratterizzati da una marcata difficoltà relazionale (Dionisi, 2014).
I neuroni specchio sembrano coinvolti anche nella strutturazione del legame affettivo primario e quindi nell’interazione più basilare, quella della diade madre-bambino. Imitare le emozioni della madre dà al bambino l’opportunità si avere un transitorio modello di identificazione, stabilendo con lei un contatto senza mediazioni, portando così dentro di sé i codici familiari e i linguaggi di interazione e di riconoscimento.
In base ai risultati dell’Infant Research, Beebe e Lachmann hanno concluso che l’interazione madre-bambino è caratterizzata da regolazioni continue.
Fin dai primi mesi di vita il bambino piccolo deve inevitabilmente affrontare una certa quota di stress nella relazione con la madre.
Questi stress si verificano perché per la madre o per il bambino è impossibile mantenere la regolazione reciproca nel corso di un’interazione completa. Questi stress ‘evolutivi’ sono normali, tipici e insiti nell’interazione (eustress). I dati più recenti, tuttavia, suggeriscono che l’esposizione precoce ad alterazioni del comportamento emotivo del genitore non permettono una corretta modulazione degli stati emozionali.
Lo studio delle capacità di fronteggiare eventi relazionali stressanti e di regolazione emozionale precoce, all’interno della relazione madre-bambino, costituisce uno degli ambiti di ricerca più interessanti nel campo dello sviluppo infantile.
Una delle procedure di osservazione per esaminare le reazioni a eventi stressanti da parte del bambino nel contesto della relazione con la madre, è l’esperimento del “Volto Immobile” (Still Face) di Tronick e collaboratori (1978).
In questa procedura che si applica a partire dai due mesi di vita, dopo una breve interazione normale viso-a-viso, alla madre viene chiesto di restare inespressiva e mantenere il suo volto immobile per due minuti circa, una situazione che chiaramente vìola in modo drastico le aspettative del bambino sulle risposte dell’altro. Il volto inespressivo della madre genera nel bambino una chiara reazione emozionale.
Alcuni bambini cercano di fronteggiare questa condizione attraverso operazioni di auto-regolazione, come la suzione, altri tentano di coinvolgere la madre, ad esempio allungando le braccia verso di lei.
Da questo punto di vista l’esperimento del “volto immobile” costituisce una condizione per valutare le differenze individuali nello stile di adattamento e regolazione emozionale del bambino piccolo di fronte allo stress relazionale.
I figli di madri maggiormente sensibili sono in grado di tollerare più adeguatamente la fase del “volto immobile”, presentando una varietà di meccanismi regolatori sia etero che auto-diretti.
D’altra parte i bambini di madri depresse, che in genere presentano una ridotta disponibilità emotiva nei confronti dei figli, tendono a manifestare strategie inappropriate, per esempio con il ricorso massiccio ad operazioni auto-regolatrici, con il ritiro nell’isolamento o con l’esplorazione disorganizzata. E’ stata messa a punto una scala che misura lo stile di coping (strategie con cui si fronteggiano le situazioni stressanti) del bambino, da “adattivo” (continui tentativi di fare segnali alla madre, attenzione temporaneamente spostata su qualcosa di diverso dalla madre) a “non-adattivo” (ritirarsi rannicchiandosi, perdita del controllo posturale e motorio, stato disorganizzato generale). Verso i 6 mesi si stabilizzano le differenze individuali nella modalità con cui si affrontano i problemi e il bambino comincia a manifestare uno stile di coping caratteristico. Queste differenze hanno un valore predittivo della qualità del legame di attaccamento valutata a 18 mesi di vita.
L’empatia dunque è alla base dell’intera vita sociale: attraverso l’imitazione e la cognizione degli stati d’animo altrui, essa rende solide le relazioni di accudimento, fa in modo che le relazioni affettive si consolidino creando coppie, famiglie e amicizie e rende possibili le più complesse relazioni che si hanno col mondo storico-sociale.
L’importanza della scoperta dei neuroni specchio ha indirizzato sempre di più la psicoterapia ad analizzare le relazioni affettive, le identificazioni e i modelli interiorizzati, al fine di risolvere i conflitti interni alla personalità.
Come nel processo evolutivo del bambino, l’obiettivo della psicoterapia è modificare e ampliare lo stato di coscienza del paziente, attraverso cambiamenti di significato a tutti i livelli, da quelli legati al corpo a quelli legati alla consapevolezza.
Come nella coppia madre-bambino, nella relazione terapeuta-paziente il significato è trasmesso con molteplici modalità (simboli, emozioni, corpo) e, pertanto, il terapeuta dovrà essere in grado di cogliere quale significato si sta co-creando in ogni momento specifico con il paziente.
Nel libro “Elogio dell’empatia” (2014) di Alessandro Dionisi, psichiatra e psicoanalista relazionale, viene dato ampio spazio a diverse dimensioni dell’empatia in aree differenti, da quella biologica a quella clinico-psicoterapeutica, a quella socio-antropologica, fino a quella filosofica. Ho incontrato il Dott. Dionisi per una breve intervista su questo tema, con lo scopo di ampliare il discorso sull’empatia nelle sue molteplici declinazioni.
Partiamo dal titolo. “Elogio dell’empatia” richiama il celebre “Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam. Quale nesso unisce il tuo lavoro sull’empatia all’opera del grande filosofo?
Questo scritto vuole essere anche, a distanza di 500 anni, una celebrazione del lavoro di Erasmo, uno dei grandi umanisti europei che segnano il passaggio dal mondo medioevale a quello rinascimentale, all’interno del quale trova spazio quello che è stato definito “umanesimo”. In esso si produce quel transito storico e culturale che sgancia l’uomo da una assoluta sudditanza al divino, per orientarlo in modo più autonomo verso la costruzione della propria storia. Ritengo fondamentale inserire oggi, nel vasto tema dell’umanizzazione, l’elemento ormai irrinunciabile dell’empatia, sul quale declinare e articolare la dimensione umana, vale a dire la nostra capacità di calarci nei punti di vista dell’altro, producendo così una relazione intersoggettiva che solo in tal modo può definirsi del tutto umana, nell’ottica di un procedere storico che si muova su un vettore evolutivo. In tal senso dobbiamo tenere presente che l’empatia può essere utilizzata in modo costruttivo o distruttivo. Nel primo caso utilizzo l’empatia a fini comunicativi, socializzanti e condividenti, per costruire qualcosa insieme all’altro, anche se ciò riguarda la sola dimensione comunicativa del comprendere e comprendersi. Comprendersi è infatti possibile solo nel momento in cui l’altro mi rimandi l’immagine che ha di me, e altrettanto per lui. Per fare un esempio metaforico, sappiamo che il nostro occhio può vedere ogni cosa all’esterno della nostra persona, ma non può vedere se stesso: per farlo deve osservarsi in qualcosa che lo rispecchi, per esempio nell’occhio di un altro individuo. Nel secondo caso, cioè ponendosi in modo distruttivo nella relazione, dopo aver intuito e “sentito” la dimensione emotiva altrui, la strumentalizzo utilizzandola esclusivamente per scopi del tutto personali, oscurando la soggettività dell’altro. In tal caso il comunicare (nel senso anche etimologico del ‘mettere in comune’), che generalmente può già iniziare come atto pre-linguistico e pre-simbolico in termini di evento non-verbale, abortisce fin da questo suo inizio.
Nel tuo lavoro clinico all’interno dell’Istituzione, come avviene il processo del calarsi nei bisogni del paziente e quali sono gli ostacoli o le interferenze che l’operatore può incontrare? Mi riferisco soprattutto ai casi in cui il paziente mostri una scarsa motivazione a lavorare su di sé, un bisogno eccessivo di controllare la relazione o una necessità di cancellare e quindi di evitare di affrontare determinate esperienze vissute, perché altrimenti si potrebbero riaprire ferite emotive ed esistenziali troppo dolorose.
L’esercizio dell’empatia in situazioni psicopatologiche molto impegnative, che richiedono interventi multidimensionali, non è né semplice né facile da realizzare. Una risposta più esaustiva a tale domanda la si può avere solo consultando ciò che viene trattato sul volume citato. In questa sede si può solo tentare una estrema sintesi su qualche aspetto essenziale. Senza dubbio una reciprocità empatica è in tali casi ancor più un punto di arrivo e transita attraverso un atteggiamento responsivo che tenga conto, oltre che della frequente avversività autoprotettiva dei pazienti, anche della forte discontinuità dei loro vissuti e condotte. Poiché per essi l’unico modo di percepirsi è nella discontinuità, solo l’offerta di una relazione che rispetti ciò, tollerandolo, può avere una qualche possibilità di successo, per aprire lentamente, nel tempo, contatti più ampi. All’interno di tali lunghi tempi di cura, sarà anche di estrema importanza fornire gli strumenti per modulare e correggere il loro concretismo, la disorganizzazione autoregolativa e la ridotta autoriflessività, nonché la difficoltà a fornire significati alle azioni e ai progetti, nell’aiutarli a vitalizzare una capacità di simbolizzazione generalmente molto ridotta, distorta e disfunzionale. Questa difficoltà sebbene non aiuti soprattutto la concettualizzazione e le capacità dialogiche, si rivela spesso ostacolante anche sulle conseguenze mentalizzabili delle stesse capacità percettive immediate. In tali condizioni, non c’è spazio per un’espressione diretta dell’empatia. Tale spazio può essere solo mediato e negoziato da una cauta successione di eventi relazionali. Appare evidente quanto l’uso di un’empatia costruttiva debba essere a lungo unidirezionale, dalla parte prevalente dei curanti.
Per uscire dall’ambito clinico, nel tuo libro concedi ampio spazio anche al rapporto tra empatia e cultura, offrendo al lettore spunti di riflessione sicuramente originali e una prospettiva che pur rimanendo nella dimensione dell’esperienza relazionale empatica, da te sottolineata come specificatamente umana, abbraccia poi posizioni più antropologiche e filosofiche. Da dove nasce l’esigenza di ampliare il discorso sull’empatia a vari e diversi ambiti?
L’esigenza nasce dal voler esplicitare che le riflessioni sulla capacità empatica non sono rintracciabili soltanto nei termini di una caratteristica neurobiologica, né si confinano a un utilizzo soltanto clinico o didattico-educativo, ma informano di sé tutta la nostra cultura. Infatti, la dimensione empatica si radica già ontologicamente nella condizione di “umanità”, la quale è definibile come tale proprio in quanto utilizza il sentire, la sensibilità. Nella condizione di umanità esiste anche una costitutiva propensione etica, la quale senza una propedeutica empatica risulterebbe cieca e riduttiva. Il richiamo a Kant è inevitabile. Così come è ineludibile, nell’incontro di empatia e ‘mondo della vita’, appelli e rettifiche alla fenomenologia esistenziale, alla filosofia dei valori e allo storicismo, con Husserl, Heidegger, Merlau-Ponty, Dilthey, Levinas ed altri. Inoltre, una corretta considerazione e un uso utile della capacità empatica, possono risultare efficaci per eludere dicotomie e dualismi, i quali rappresentano ostacoli più che facilitazioni alla conoscenza. Infatti c’è un’evoluzione della concezione di empatia, nell’avvicinarsi progressivamente ad un suo ampliamento e completamento. A partire dagli anni ’60 (del novecento), empatizzare con qualcuno significava comprendere e riconoscere le sue emozioni e intenzioni, riuscendo a vedere ciò che lui sta vivendo dalla sua prospettiva. Dagli anni ’80, empatizzare significa anche provare un’esperienza di condivisione emotiva e di comprensione dell’esperienza dell’altro, dando quindi spazio sia a una componente cognitiva che a un’altra emotivo-affettiva, in modo tale che esse possano coesistere nel processo empatico. Quest’ultimo è seguito generalmente da un processo di mentalizzazione, il quale risulta tuttavia cronologicamente così vicino al primo movimento di sola empatia, da risultare ad esso contemporaneo. Pensarli troppo distinti e separati vuol dire parlare o di un essere umano decerebrato che può utilizzare solo il sentire senza coniugarlo con cognizione e motivazione, oppure descrivere una condizione psicopatologica di grave dissociazione tra le funzioni psichiche (autismo, catatonia…). Per chi esercita professioni di aiuto (psicoterapeuti, medici, infermieri, ecc.), empatizzare significa, in modo più ampio, provare ciò che l’altro prova, dando modo al soggetto di comprendere ciò che prova egli stesso (rispecchiamento empatico).
Per concludere, cito una frase del tuo libro che mi ha colpito per la sua semplicità e immediatezza, ma soprattutto per il suo contenuto così attuale sull’incomunicabilità. “Gli uomini, infatti, hanno spesso l’illusione di essere in rapporto tra loro ma propongono molto frequentemente prevalenti espressioni superficiali che, anziché creare un collegamento, aumentano la solitudine individuale e non riescono a legare un soggetto all’altro all’interno di attività soddisfacenti, verso scopi comuni, entro sintonizzazioni emotive ed affettive”. Oltre al messaggio già implicito in ciò che ho citato, quale messaggio più ampio vorresti trasmettere?
Con l’assenza dell’empatia e della mentalizzazione ad essa associata, l’evento comunicativo tra le soggettività risulta molto superficiale, senza indirizzarsi verso le varie aree motivazionali dell’essere umano. Dialogare con l’emozione e la motivazione è senz’altro più esaustivo, per la comunicazione, che non il dialogo che utilizza e si indirizza riduttivamente su soli elementi ‘tecnici’ e razionali, all’interno dei quali può trovare maggiore spazio la menzogna e la mistificazione. Per dirla con le parole di A. de Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Qualora i rapporti intersoggettivi si strutturassero del tutto secondo i codici naturali di un’empatia costruttiva, si sarebbe meno orientati a proporsi disempaticamente contro l’altro e a definirsi su condotte con derive violente e distruttive. Senza utilizzare una comunicazione fondata su un’empatia costruttivamente orientata, il clima relazionale di cui ognuno fa esperienza si propone soltanto come trasmissione della propria mera verità diversa da quella altrui, senza tentativi di trasformazione di posizioni tenute spesso pregiudizialmente in opposizione, lontane da una cooperazione complementare e senza sapere a quale orizzonte esistenziale comune si possa appartenere, né quale orizzonte prospettico si possa costruire insieme. Il messaggio è indirizzato anche a tutti coloro i quali sono preda di confusione e scambiano l’empatia con un banale buonismo o con la semplice gentilezza e la cortesia formali, mentre queste ultime possono utilmente e principalmente costituire un possibile veicolo di un vero avvicinamento empatico. Altra direzione del messaggio è, poi, verso chi confonde la relazionalità empatica addirittura con posizioni simbiotiche o fusionali, quando invece il contatto empatico può servire per favorire, in personalità orientate verso l’equilibrio, un sufficiente avvicinamento comunicativo, una risonanza che configuri un’appartenenza almeno transitoria, la quale possa permettere poi una separazione ed una individuazione. Ci si può separare solo da una appartenenza, altrimenti ci si separa dal nulla e si troverà, di conseguenza, soltanto il nulla. E’ la direzione cui si è condannato l’esasperato individualismo consumistico e appropriativo della nostra società, globalizzata nell’indifferenza e nella discriminazione e spesso in esse radicalizzata.